Serena Vitale

Julia

A Julia Dobrovolskaja, la linguista (e traduttrice, lessicografa, scrittrice) russa morta a novantanove anni in Italia, dove viveva dall’82, devo molte cose. Le pazienti risposte ai miei disperati SOS, quando dopo essermi inutilmente dannata su una frase o solo una parola di un testo russo renitente alla versione italiana, le chiedevo aiuto. Le sono debitrice, ancora, delle lezioni di lingua russa che tenne all’Università Cattolica di Milano, finché un giorno dagli Uffici mi dissero: “ Ha un’età che non le si può far firmare nessun tipo di contratto” ( lei urlò: “A 86 anni sarei troppo vecchia per insegnare?” e un gruppo di studentesse che la adoravano riuscì a ottenere dal prof. Cigada, allora nostro Preside, la proroga di un anno a dispetto di leggi e decreti). E ancora rendo omaggio alla sua salvifica ospitalità: quando studiavo a Mosca andavo a trovarla nel suo piccolo appartamento in via Gor’kij, in pieno centro, “così, per un breve saluto”. In realtà per risolvere il problema più assillante degli stranieri a Mosca: la pipì (non esistevano bar, per i ristoranti bisognava mettersi pazientemente in coda e stare per un’ora o più al gelo acuiva il problema). Dopo un po’ lei capì, ovviamente, e si divertiva a bloccarmi, ancora intabarrata, parlando del più e del meno (sempre “meno”, nella Mosca di quegli anni) finché non imploravo, con le lacrime agli occhi: “Mi faccia andare in bagno, per piacere”. Uscita dal gabinetto, potevo sempre contare su un tè caldo, su inflessibili quanto preziose correzioni del mio ancora balbettante russo. Era stata anche insegnante di italiano, e non lasciava correre con un sorriso, come tanti suoi compatrioti, i miei ridicolissimi errori.
Nell’82, grazie a un matrimonio di comodo, lasciò l’URSS, i miasmi della “stagnazione” brežneviana ( “pedinamenti, delazioni, invidia”), i suoi libri e le sue cose, portando con sé solo i ricordi un passato dai tanti momenti oscuri. La militanza nella guerra civile spagnola quando, giovane interprete, aveva scoperto il trattamento riservato dai sovietici agli anarchici, la condanna a tre anni di lavori forzati (l’amnistia di Stalin, nel ’45, li ridusse a uno) perché, conoscendo molte lingue straniere ed essendo stata all’estero “avrebbe potuto tradire”, le soffiate, e i relativi licenziamenti, di “amici” e colleghi …
E invece non tradì mai, Julija, la russa col marchio del “punto 5” (“nazionalità”: ebrea). Si può solo immaginare quanto difficile e tormentoso fosse per lei muoversi nella strettissima lingua di terra che separava la coscienza dell’iniquità imperante dall’amore per la sventurata patria. Non diede mai soddisfazione agli uomini del KGB che da una stanza sotto il suo appartamento ascoltavano ogni parola pronunciata da lei e dagli illustri ospiti italiani – aveva, tra l’altro, il compito di interprete per le delegazioni ufficiali in visita a Mosca. C’erano gli scrittori da lei tradotti (Moravia, Rodari…), gli amici Abbado, Paolo Grassi, Guttuso. Quest’ultimo la rinnegò come “traditrice” quando decise di emigrare. Avrebbe potuto dare lui il buon esempio, penso oggi con rabbia, lasciando l’Italia ed emigrando nel paradiso sovietico, ma dalle sue belle e oneste memorie (Post Scriptum 2006 – converrebbe rileggerle) la stessa Julja mi ammonisce : “Cosa mi è rimasto di Renato?… Una struggente pietà per lui e Mimise, per la sua fine indegna e scandalistica. Una sorda protesta contro la peste del 1917 che infettò l’intero pianeta avvelenando la vita di molte generazioni…”.
Julija era molto amica di Marcello Venturi; aveva tradotto il suo Bandiera bianca a Cefalonia ( come ridemmo quando – doveva essere il ’77 – durante un’intervista il titolo venne corretto da uno speaker della televisione sovietica in Bandiera rossa a Cefalonia). E a Venturi si deve la leggenda, sempre smentita dalla protagonista, che la bella giovane russa dai capelli d’oro sia stata il prototipo della Maria di Per chi suona la campana. Ma nella leggenda Julia era già entrata – con le sue traduzioni, il suo Corso pratico d’italiano (prima edizione 1964) su cui hanno studiato generazioni di russi, l’enorme lavoro al Dizionario russo-italiano e italiano-russo, la sua passione pedagogica. Anche con la sua straordinaria vitalità. La credevamo immortale.
Serena Vitale