Sebastiano Grasso

Julia Dobrovolskaja , voce russa degli scrittori italiani (e viceversa)

Julia era nata sul Volga, a Nižnij Novgorod nel 1917. Aveva iniziato lavorando per la Tass: leggeva la stampa straniera in 5 lingue (spagnolo, francese, tedesco, inglese, italiano), selezionando le notizie che riguardavano il suo Paese. Contemporaneamente insegnava Lingua e letteratura italiana all’università di Mosca.
Una vita straordinaria e avventurosa, la sua.
A cominciare dalla parentesi della guerra civile spagnola. Nel 1938 aveva affiancato il generale Vekov e seguito, come traduttrice, i volontari russi nella penisola iberica per combattere a fianco dei repubblicani contro Franco. Qui incontra Orwell, la «pasionaria» Ibarruri ed Hemingway: qualcuno la riconosce nel personaggio di Maria in Per chi suona la campana (ma lei ha sempre smentito una relazione con lo scrittore americano). Circa sessant’anni dopo Julia sarà la protagonista di Via Gorkij 8 interno 106 di Marcello Venturi. Uscito nel ’97, il libro verrà ripubblicato in ottobre dalle Edizioni Lindau di Torino.
Rientrata in Russia, Julia torna all’università. Allieva ed amica di Vladimir Propp, docente di filologia germanica, si laurea in Lingue. Dopo il lavoro alla Tass, nel ‘44 viene arrestata e condannata a tre anni di lavoro penale. L’accusa? Come traduttrice in giro per il mondo avrebbe potuto tradire il proprio Paese. Nonostante sia la moglie del generale sovietico Aleksandr Dobrovolskij, finisce prima alla Lubianka e poi nel lager di Chovino. Con l’amnistia di Stalin, la riabilitazione. E l’insegnamento universitario, le traduzioni dei libri di Sciascia, Moravia, Parise, Rodari, le visite con la Callas, Guttuso, Abbado, Grassi, Manzù, Gregotti, Brandi, Squarzina, Nono, Cacciari. Dopo Budapest e Praga, Julia decide di lasciare l’Urss e di venire in Italia. Guttuso non approva la scelta dell’amica («traditrice della patria comunista») e da quel momento interrompe qualsiasi rapporto.
Viveva a Milano da 34 anni. Nel capoluogo lombardo era approdata nell’82.
In Italia, Julia insegna russo nelle università di Trento, Trieste, Venezia e Milano (l’ultima lezione, nel 2003, alla Statale, a 86 anni), scrive 7 manuali e il Grande dizionario russo-italiano italiano-russo (Hoepli, 2001), cura i libri di Nina Berberova, Jakov Rapoport, Evgenij Gnedin, Lev Razgon. Nonostante vent’anni di docenza negli atenei (incarichi annuali rinnovati), non le era mai stata riconosciuta una pensione. L’unico aiuto le era venuto dalla legge «Bacchelli». La scrittrice ha continuato a lavorare senza sosta sino a qualche giorno prima di morire. L’ultimo scritto — ancora inedito — è la prefazione a Rivolta , il libro di Rino Tringale sulla Rivoluzione russa, che uscirà in febbraio prossimo dalla Se, in occasione del centenario.
Nel 2006, in Russia e in Italia erano uscite le sue memorie, Post scriptum , ristampate — e aggiornate — lo scorso anno. Emblematico del suo modo di essere è di vivere è il ricordo del suo trasferimento al Policlinico di Milano in un momento in cui il cuore sembrava avesse ceduto definitivamente. «Se la sanità milanese è al top, il chirurgo che mi operò — Pietro Broglia, un dottore pasciuto e avanti con gli anni — è un’eccellenza nel suo campo, un vero fuoriclasse (…). Bofonchiava: “Sono vecchie queste arterie, non vanno. Dovremo rimandare”. “No, dottore, ne cerchi un’altra. Saprò sopportare”. Il dolore in realtà era atroce, ma in quel momento non fu una preghiera a uscirmi dalle labbra, bensì un sonetto: “Tanto e gentile e tanto onesta/ pare la donna mia/ quand’ella altrui saluta…”. Delizioso e strabiliante fu che Broglia proseguì con me: “C’ogne lingua devén tremando muta…” e che subito dopo, anche la dottoressa con la frangetta brizzolata, con gli occhi incollati al monitor, si unì a noi. Dopo quasi tre ore di ricerche, il povero, sudatissimo Esculapio (parola che Cechov tanto amava) stanò la vena adatta e il pacemaker fu messo a dimora sotto la clavicola sinistra».