Rino Tringale

A Julia Dobrovolskaja

Che una persona con la mia traiettoria professionale (nato 37 anni dopo Julia, in Sicilia (abbastanza lontano, quindi, da Nižnij Novgorod, San Pietroburgo o Mosca) ingegnere meccanico, che ha sempre lavorato in settori industriali, che non ha mai – cioè – avuto a che fare con il mondo della Cultura) possa conoscere una donna – straordinaria – come Julia Dobrovolskaja… è decisamente insolito.
Eppure è successo. Ed è successo in quattro mosse.
Uno. Verso il 2008 stavo male, attraversavo un brutto periodo. Ottimista di natura mi rendevo, purtroppo, sempre più conto della brutta piega che ha preso questo pianeta compresso (senza insomma più le difese garantite dallo Spazio e dal Tempo) e ormai preda di una globalizzazione urlata con la grancassa, ma indirizzata solo a beneficio di pochi, pochissimi. Decisi di scrivere per cercare di capire. Fu così che nel 2011 venne fuori Il guado, il mio primo libro, un omaggio, fra l’altro, a Leonardo Sciascia, con in chiusura una sorta di sequel de Il giorno della civetta.
Due. Tramite Il guado conobbi Fabrizio Catalano, drammaturgo, scrittore, attore, regista teatrale… e nipote di Leonardo Sciascia. Fabrizio, in questi anni, è divenuto un carissimo amico.
Tre. Mi iscrissi alla “Associazione Amici di Leonardo Sciascia”, formata da persone appassionate dagli stessi temi, umani e sociali, che Sciascia ha perseguito, per tutta la vita, sia come scrittore, che come cittadino.
Quattro. A Firenze, durante l’assemblea annuale del 2012, Francesco Izzo, una della anime dell’Associazione ,
parlando di “Leonardo Sciascia e la Russia”, accennò alla sua traduttrice, a Julia Dobrovolskaja, che viveva a Milano. Fui folgorato. A quel tempo avevo appena finito di scrivere Rivolta (parla della rivoluzione russa del 1917) e la possibilità di poter conoscere un pezzo di storia come Julia mi lasciò, semplicemente, senza fiato.

Conobbi Julia pochissimo tempo dopo.
Ebbi il permesso di andarla a trovare, al Policlinico, il giorno dopo che il Professor Pietro Broglia era riuscito a “stanare la vena adatta e messo il pacemaker a dimora sotto la clavicola sinistra” (sue testuali parole). Avendo letto tutto quel che mi era stato possibile trovare su di Lei, andando al Policlinico avevo la sensazione di far visita, oltre che a una donna, a un pezzo di Storia. Questa sensazione, ne sono ben cosciente, mi ha accompagnato per tutto il tempo che ci siamo frequentati.

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Nutro un’ammirazione sconfinata per tutti i russi che, dai moti decabristi del 1825 alla rivoluzione di febbraio del 1917, hanno speso l’anima, fatiche, fortune, spesso la vita, per immaginare un futuro migliore per la Società in cui vivevano. Da questo punto di vista, per quel che ne so, l’unico parallelismo possibile, in tutta la storia dell’Umanità, è quello con i decenni (Illuminismo) che precedettero la rivoluzione francese.

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A parte la prima volta al Policlinico e, in estate, a Tonezza del Cimone, ho incontrato Julia sempre al 51 di Corso di Porta Romana. Andavo a trovarla tutte le volte che mi era possibile il che, vivendo in Cina, significava tutte le volte che rientravo in Europa.
Era bello, andavo di pomeriggio, mi faceva trovare un ottimo te e deliziosi dolci russi. Poi cominciavamo a discutere di un po’ di tutto: storia, politica italiana, tecnologia, la Russia, la Cina, il Futuro, di Leonardo Sciascia, dei suoi tanti amici italiani: Paolo Grassi, Marcello Venturi, Gianni Rodari, Claudio Abbado, Alberto Moravia, Giacomo Manzù, Ugo Giussani, dei suoi “anni” di viaggi in treno per andare a insegnare alla Ca’ Foscari di Venezia e dei suoi tanti allievi, diversi dei quali le riscaldavano – ancora ad anni di distanza – il cuore. O dei suoi amici russi: di Nina Berberova, di Aljosha Buchalov (che le telefonava ogni santo giorno da Roma) e di altri di cui vedevo le espressioni nelle foto appese sulla parete accanto al tavolo.
A volte mi raccontava degli aneddoti: come quello dei fiori mandatele in camera dal “nobile” siciliano condannato dalla mafia a vivere recluso in albergo (di lusso). O dell’incontro (dopo la ben nota controversia) fra Sciascia e Guttuso, di cui fu testimone a Palermo. O della paura che l’aveva assalita all’aeroporto di Mosca il giorno in cui era in procinto di lasciare, per sempre, la Russia (lo stesso in cui morì Brezhnev).

 

Io, a volte, mentre parlavamo, le dicevo d’improvviso: “Julia, lascia che ti tocchi il braccio, così tocco un pezzo di Storia”. Lei sorrideva, mi lasciava fare, poi aggiungeva un’immancabile, arguta, osservazione.
Parlava anche dei pranzi domenicali che Sebastiano Grasso amava organizzare, a cui era regolarmente invitata. E a come Sebastiano si era adoperato perché le fosse concessa la pensione “Bacchelli”.

Spesso le chiedevo di spiegarmi degli eventi specifici della Storia russa. Lei rifletteva un po’, poi dava indicazioni a Lyuda su dove trovare un certo libro quindi, con il libro fra le mani, cominciava a parlare.
E a me piaceva ascoltarla.
Una volta le chiesi di Parvus, Lei si alzò di scatto puntando entrambe le mani sul tavolo (ce l’ho ancora davanti agli occhi), andò alla libreria alle mie spalle e mi porse Uscita dal labirinto, di Evgenij Gnedin.
Io le dissi: “Tu hai un rolex per cervello”.
Spesso mi parlava di Lev Razgon, delle grandi tragedie che avevano segnato la sua vita, e dei brindisi che Lev faceva, il 5 marzo di ogni anno, anniversario della morte di Stalin.

Una volta, appena arrivato al 51, mi sorprese – immensamente – porgendomi alcune pagine dattiloscritte.
Il titolo era “Rino”. La guardai interrogativo e Lei mi disse: “Da tanto mi chiedevano una nuova edizione di Post Scriptum, alla fine ho ceduto e tu sei diventato… un capitolo. Senza parole andai ad abbracciarla.
Il capitolo cominciava con questa frase:

Quando mi chiedono: «Ma lei ha conosciuto Leonardo Sciascia? », rispondo: « Sì, e tengo a precisare, ho avuto questa fortuna ».

Conoscendo la mia ammirazione per Sciascia, aveva voluto farmi un omaggio nell’omaggio.

Nell’estate del 2013 Le dissi, più o meno: “I politicanti italiani non sono solo marci, sono anche ipocriti, ed io sento il bisogno di fare qualcosa di tangibile, non posso solo pensare e riflettere”. La guardai negli occhi e aggiunsi: “per cui voglio protestare. Quest’inverno, intorno a Natale, davanti al Quirinale, protesterò, da solo, in modo pacifico e simbolico”. Lei mi guardò a lungo, poi mi rispose: “Se pensi sia giusto, devi farlo” (Julia ha riportato questo “fatto” nel suo capitolo “Rino”).
Durante un pranzo “da Gigetto”, a Roma, ne parlai anche con Fabrizio. Lui ascoltò attentamente, poi mi fece capire che il mio gesto, seppur pacifico e simbolico, non avrebbe catturato alcuna attenzione da parte dei media.
A Milano andai a consulto, infine, da un avvocato per chiedergli un parere sugli aspetti legali che sarebbero potuti derivare dal mio gesto. Dopo avermi ascoltato attentamente, mi fissò in faccia (mentre mi guardava, pensai si stesse dicendo fra sé e sé: “Ma questo è un illuso, in altre parole un cretino”) poi con fare professionale rispose che non ravvisava alcuna violazione della legge.
Dal 15 novembre al 18 dicembre 2013, Roma,e l’Italia, furono toccate dalla “protesta dei forconi”.
La piazza del Quirinale, e altri luoghi sensibili di Roma, furono bloccati/presidiati dalla polizia, per cui il mio piano era diventato inattuabile. Mi dissi che – forse – era un segno del destino, e decisi di archiviare, una volta per tutte, l’argomento.

Nell’estate 2014 Le chiesi se Le andava di scrivere una Introduzione a Rivolta. “Potremmo adattare il capitolo Rino” mi rispose. Io leggevo, Lei di tanto in tanto mi bloccava dicendo “… si potrebbe modificare così” oppure “questo si potrebbe cancellare”.

Fabrizio Catalano, da bambino, ha conosciuto Julia a casa del nonno.
Gli ho chiesto di scrivere su quel ricordo e sulla Russia. Lui, come al solito, ha scritto un pezzo bellissimo “Fantasie di neve e d’oro” che è stato inserito subito dopo la Prefazione di Julia.

L’ultima volta che ho incontrato Julia è stato a Tonezza del Cimone, martedì 13 luglio. La trovai radiosa, in ottima forma. Le feci vedere la copertina di Rivolta preparata da SE, l’editore. Lei mi disse contenta:” Ah, hai messo Lilja in copertina” poi, guardandomi in faccia: “abbiamo passato insieme, a Peredelkino, il suo ultimo capodanno, quello del 1977”. Con quella frase aveva trasformato Lilja Brik e Rodčenko, per me delle icone, in degli esseri umani, in qualcosa di collegato al mio libro.
Prima di andar via mi disse: “La prossima volta che verrai a trovarmi, a Milano, ricordami di darti il Trattato di Rodčenko”.

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Quando incontrai Julia la prima volta, al Policlinico, dopo alcuni sguardi e qualche parola, capii che, se mai fosse andato alle stampe, la prima copia di Rivolta sarebbe stata per Lei. Un destino amaro e imperscrutabile non lo ha reso possibile, per cui non mi resta che farlo con il pensiero che, come tutti sappiamo, può arrivare ben più lontano della carta.

Foshan, 15 dicembre 2016