Mila Nortman

A Julia ho sempre dato del “lei”, anche se nei trent’anni della nostra amicizia mi avrà rimproverata mille volte: “Insomma, Mila, dammi del tu!” Le sue vecchie allieve, col tempo divenute amiche, le davano del “tu”, come si usa in Italia; e perfino le mie figlie, ma io non ci riuscivo. Qui forse c’entrava l’educazione sovietica, malgrado entrambe fossimo allergiche a tutto ciò che puzzava di sovietico. Dunque è rimasto così: Julia mi dava del “tu”, e io del “lei”. Anche se negli ultimi anni (seguendo l’esempio di Lev Razgon, che da Mosca faceva a Julia la sua telefonata quotidiana, il cosiddetto “controllo”), ci sentivamo ogni santo giorno e condividevamo tutto, dai libri letti alle minuzie della vita quotidiana, fino a cosa era previsto per pranzo. Julia si interessava a tutto, in special modo alle mie figlie: conservava gelosamente i loro biglietti di auguri e le buffe letterine in russo, che mi sono ritrovata in mano mentre passavo in rassegna il suo archivio dopo che ci ha lasciati. Anche i discorsi sugli studenti non finivano mai. Ci sono stati anni in cui dormivamo nello stesso letto della Locanda Fiorita, a Venezia, nei pressi dell’università in cui insegnavamo entrambe. Le conversazioni notturne potevano prendere una piega molto personale, sui mariti e gli amori. Tuttavia in tanti anni ho sempre guardato a Julia con un senso di venerazione, motivo per cui non sono mai riuscita a passare al “tu”.

È stato con mia enorme sorpresa che ho trovato il mio nome nel suo testamento. Julia aveva molti amici, di vecchia e di vecchissima data, recenti e recentissimi, in tutto il mondo: in Russia, America, Italia, Germania, Svizzera, Israele… Eppure nel testamento, tra pochissimi altri, sono finita io. Sono rimasta molto colpita. A Julia devo molto: per prima cosa il suo manuale, su cui insegno da trent’anni e sempre con l’impressione che sia stato scritto apposta per me; le devo i suoi amici più cari: Nina Beilina, Petja Nemirovskij, Renata Baffi, che sono diventati miei grandi amici; e la sua stessa amicizia, che ha illuminato e portato tanta gioia nella mia vita. Vedendo il mio nome nel suo testamento, per un po’ sono rimasta perplessa, e ho anche pianto; ma poi a un tratto ho capito: evidentemente ero l’unica a conoscere tutti gli amici di Julia − molti di persona, molti grazie ai racconti e al “Post Scriptum”, che digitavo al computer dai suoi fogli scritti a mano − e di conseguenza ero l’unica persona che avrebbe potuto fare ordine tra i suoi libri, i quadri e le sue cose e dividerli con coscienza, in modo che a ciascun amico rimanesse un ricordo dell’amata Julia; ero l’unica che potesse trovare una collocazione al suo archivio, contattare i parenti e le persone care. La sua piena fiducia in me è il dono più grande che ho ricevuto da Julia.

Arrivando da lei nelle due visite all’anno che le facevo (a Milano il giorno di Natale, che trascorrono tutti a casa con la propria famiglia, e d’estate nel paesino di montagna di turno), per prima cosa le comunicavo con gioia che la trovavo in piena forma. Julia rideva e mi diceva: “Sei tu che mi vedi sempre bella!” Però non era vero. Lei era sul serio bellissima, intelligente, buona, piena di fascino e amata da tutti.