Insegnanti molti, maestra – lei
a Ju
“Alle mie lezioni o si arriva puntuali o non si arriva. Ci vediamo la prossima volta”.
È cominciata così. Lei inflessibile alla lavagna. Io che giravo i tacchi e riprendevo la porta dell’aula di Ca’ Garzoni Moro. Lei arrivata a insegnare da poche settimane a Venezia precedeuta dalla sua fama. Io studentessa del terzo anno di ritorno da Mosca che aveva sbagliato a copiare l’orario delle lezioni.
È continuata con un lento, progressivo innamoramento. Reciproco, mi azzardo a dire solo ora, con le lacrime agli occhi anche adesso che cerco di spremere qualche riga a un dolore, a un senso di vuoto che non si rimargina.
Accidenti, Ju… Continuo a piangere… E chi meglio di te sa quanto mi riuscisse facile…
Di te?
L’ho scritto davvero?
Molti, tutti si stupivano che ti dessi ancora del lei dopo quasi trent’anni. Non mi scappava neanche quando ci arrabbiavamo. Mai. Non saprei dire perché. Sicuramente era un misto di rispetto reverenziale e differenza anagrafica (e poi c’era mio padre: dava del lei persino ai suoi allievi della scuola media… aggiungiamoci l’imprinting, insomma). Comunque, nessuna delle due ci ha mai fatto troppo caso, vero?
Prima gli esami, poi la tesi, poi il dizionario. Io stupita di essere capitata in mezzo a quell’esperienza unica, lei entusiasta di condividere, di INSEGNARE. In mezzo, passo dopo passo, la sua ineguagliabile “bottega” di traduzione.
E soprattutto una confidenza, un’abitudine – nel senso più nobile, più delicato e caldo del termine – che diventava pian piano necessità, che diventava famiglia.
Era fiera dei miei figli che le volevano bene, era innamorata di Filippo che la ricambiava con una devozione totale.
Ed era fiera di me.
Ju, accidenti… Di nuovo? Non so cosa mi stia succedendo, oggi. È come saltato il tappo. Riesco finalmente a dirti tutto quello che ho dentro senza paura di sembrare boriosa, supponente… Sarò finalmente cresciuta?
Avrei mazzi di aneddoti. Felici e tristi, buffi e rabbiosi. Le soddisfazioni per il dizionario e i manuali che prendevano forma, le delusioni per gli “amici” spariti, la gioia delle visite di ex studenti da mezza Italia che le presentavano mariti e figli, l’entusiasmo per una buona traduzione, il dispetto quando trovava errori (“Perché non hanno telefonato!”), le peregrinazioni per dottori che si ostinavano a dirle che era sana come un pesce e con i quali finiva SEMPRE per parlare di letteratura russa…
Un paio di momenti solo nostri. Ci provo.
Rido ancora, inesorabilmente, ogni volta che ripenso alla mattina in cui la strana coppia che eravamo (lei sull’ottantina, io trentenne o poco più) discuteva con foga sul turpiloquio da inserire nel dizionario, a braccetto sotto i portici della libreria Hoepli. Eravamo talmente prese da citazioni ed esempi sulla fraseologia legata al “deretano” (ma noi usavamo culo con grande disinvoltura), che un signore si fermò, basito.
“Signora” disse rivolto a Julia, “mi meraviglio di lei: che frasario!”.
“Egregio signore, è il miglior complimento che possa fare a una lessicografa!” fu la sua risposta. Smettemmo di ridere solo davanti alla soglia dell’ufficio di chi ci attendeva.
Altra storia fu la reazione – assurda, per me – che ebbe quando morì improvvisamente mia madre. Al telefono, mentre glielo raccontavo, gridò entusiasta, quasi scomposta, gelandomi: “Ma che meraviglia! Che invidia! Dove si firma? Anche io voglio morire così!”.
Sai, Ju, questa ho fatto fatica a “masticarla”. Come ho fatto fatica anche un’altra volta, sai tu quale. Quel sabato mattina di giugno. Ma è probabile che ti capirò meglio man mano che passerà il tempo. Se anche per me gli anni si allungheranno troppo, come dicevi tu.
Su una cosa non ho alcun dubbio. Le devo tutto quello che – forse – so fare. Le devo l’orecchio, le devo i campanellini che suonano per accendere la curiosità, le devo una convivenza con la lingua – con le lingue, entrambe – che mi fa sentire salda sulle mie gambe. Ma le devo anche il profondo timore di offenderla, la lingua, che mi fa mettere in dubbio ogni certezza e che non mi fa avere mai timore di chiedere aiuto. Mai. Né di darne a chi lo chiede.
Perché è questo che mi hai insegnato sopra ogni altra cosa, Ju.
Klašen’ka
due PostScriptum (o quasi)
P.S. 1 per Julia – Andrea si chiede spesso cosa fai, tutto il giorno sulla nuvoletta dove ti sei trasferita. E Elena, ormai ginnasiale, ha detto fiera alla sua professoressa di italiano che spiegava alla classe la Morfologia della fiaba che lei, quel nome, Propp, lo conosceva bene. Perché era stato “il professore della Ju”. L’insegnante mi ha scritto per sincerarsene.
P.S. 2 a Julia – Una quindicina d’anni fa, Julia mi disse: “Continua così, e fra vent’anni tradurrai Anna Karenina”. È successo qualche anno prima dei venti. E ha fatto in tempo a leggerla.