Bianca Maria Balestra

Julia
Conobbi Julia nel 1992.  Per un anno fummo colleghe in una scuola superiore di Milano dove ero stata mandata a insegnare il russo, materia che avevano appena introdotto per gli studenti dell’indirizzo linguistico.  Una volta la settimana era prevista la compresenza in classe di un insegnante madrelingua e quell’ora settimanale era stata offerta a Julia, che aveva accettato l’incarico, sia perché la scuola si trovava a due passi da casa sua , sia perché voleva fare un’esperienza con studenti più giovani, lei che per anni aveva lavorato  con gli universitari.
Julia resistette in quella scuola solamente un anno: l’ambiente parecchio trasandato, la poca dedizione allo studio degli studenti presto le tolsero l’entusiasmo;  tutto il suo essere si ribellava alla trascuratezza, all’approssimazione, alla mancanza di serietà verso se stessi e verso i propri compiti. Julia aveva bisogno di vedere negli occhi degli altri almeno un lumicino di interesse. A quella fiammella rispondeva con un gran fuoco, ma se essa mancava… Non so che cosa deve aver visto nei miei occhi. Forse si era accorta che in classe non mi perdevo una sua parola. Difatti, avevo subito capito di avere parecchio da imparare da quella collega molto più anziana di me (allora Julia aveva 75 anni,) che era lì per collaborare con me, poco più  che trentenne titolare della cattedra. Ridicolo solo a pensarci.
Non ci volle molto perché cominciassi a frequentare la sua casa, a conoscere le persone che la frequentavano. Di lì a un paio d’anni anch’io potei, sebbene solo temporaneamente, abbandonare la scuola, perché avevo passato il concorso per un dottorato di ricerca presso l’Università Statale di Milano e avrei dovuto dedicarmi alla stesura di una tesi di dottorato. Julia prendeva un vivo interesse a tutto quello che succedeva a chi aveva intorno. In quell’occasione fu lei a suggerirmi l’argomento che avrei scelto per la stesura della tesi: Kornej Cukovskij.  Io, poi, decisi di concentrarmi sulla sua attività di critico, quella che ritenevo la meno studiata, ma con Julia ci eravamo ripromesse che, al momento opportuno, avremmo affrontato la traduzione del suo libro “Una grande arte”, sulla traduzione, appunto. E così fu.
E’ stata Julia a insegnarmi a tradurre. Non avrei potuto avere maestra migliore. Piano piano, lavorando a quattro mani insieme a lei, ho imparato, innanzitutto, a non sopravvalutarmi, poi a non credere di aver capito a tutti i costi, a essere modesta nei confronti del testo, a non avere fretta, a sgobbare sui dizionari. Ho imparato che, dopo questo lavoro preliminare, bisogna andare oltre i dizionari per trovare altri equivalenti, che, magari, essi non riportano, ma che sono i più azzeccati nel determinato contesto; ho anche capito che bisogna andare oltre la lettera dell’originale,  per dare al testo una nuova naturalità. Julia aveva un intuito e un senso della lingua sorprendenti: rimanevo di sasso a vedere con quanta sicurezza lei, russa, trovava gli equivalenti italiani più adatti ed espressivi. Ribaltava l’originale e da esso traeva frasi italiane che sembravano uscite dalla penna di un nostro scrittore.
Come, credo, potrebbero confermare tutti coloro che l’hanno avuta come maestra, o semplicemente come amica, Julia non si risparmiava mai: se c’era bisogno del suo aiuto, correva. Correva, anche quando non aveva più le gambe per correre. L’ultima volta che “è corsa” in mio aiuto è stato lo scorso aprile. Mi trovavo ad Ashgabat, in Turkmenistan, da più parti mi era arrivata la richiesta di organizzare un corso di italiano. Ho subito pensato al manuale di Julia, scritto per i suoi studenti russi più di quarant’anni prima e diventato un classico tra i manuali per lo studio della nostra lingua in Russia. Qualche anno fa Julia lo ha rivisto, aggiornato e ampliato, ed era proprio quella nuova edizione che volevo reperire per il mio gruppo turkmeno. Nell’era di internet avrebbe dovuto essere un’operazione semplice,  invece si rivelava difficile, perché a qualsiasi sito mi rivolgessi la nuova edizione risultava esaurita. Una delle aspiranti studentesse di italiano aveva chiesto a una zia di Mosca di cercare il manuale in qualche libreria e si aspettava l’esito della ricerca.
Nel frattempo avevo raccontato dei miei vani tentativi a Julia, che sentivo regolarmente per telefono.  Alla telefonata successiva ho subito avvertito nella sua voce una certa agitazione: “Senti, c’è una persona che ti può aiutare. Scrivi a Misha, adesso Ljuda ti dà l’indirizzo”, e mi ha passato la signora ucraina che da due anni le era accanto per aiutarla. Julia ci vedeva poco, e poi con il computer e la posta elettronica non ci aveva mai trovato il verso, ha sempre scritto tutto a mano.  Ljuda mi ha dettato l’indirizzo email di Misha, un giovane medico russo che aveva di recente preso a frequentare la casa di Julia, gli ho scritto e lui mi ha mandato una copia elettronica del manuale. Così, in quattro e quattr’otto, abbiamo potuto cominciare il nostro corso.
Negli ultimi anni ho trascorso lunghi periodi fuori dell’Italia e il legame con Julia rimaneva, purtroppo, solo attraverso il telefono. Non erano contatti quotidiani, ci si sentiva in media ogni settimana. Se tardavo a chiamarla le sue prime parole erano. “Ti ho persa”, e le ultime al congedo: “Fatti sentire più spesso, mi raccomando”. Ero io a chiamare dall’estero, ma anche da Milano di solito l’iniziativa la prendevo io, senza esagerare con gli intervalli, però.  Tuttavia, ciò non voleva dire dimenticanza da parte di Julia, che non si dimenticava mai dei suoi amici. Siccome sapeva voler bene veramente, Julia riusciva anche a mantenere con loro un legame spirituale che non aveva bisogno degli ordinari mezzi di comunicazione. Tanto è vero che le sue chiamate in genere mi arrivavano quando attraversavo momenti difficili.
Il giorno in cui è morto mio fratello improvvisamente il suo numero è comparso sullo schermo del mio cellulare. Dapprima ho sentito la voce di Tanja, la sua prima badante. Come tutte le estati, Julia era scappata dal caldo di Milano verso luoghi più freschi, quella volta erano le colline del lago Maggiore, e per tenersi in contatto col mondo doveva ricorrere al cellulare. Al cellulare era andata meglio che al computer, però anche quello strumento non era completamente entrato nell’universo juliano, il rapporto rimaneva problematico. Così Tanja ha fatto il mio numero e poi mi ha passato Julia: “Avevo bisogno di sentirti, non ero tranquilla, dimmi di te”.
Quando la chiamavo voleva sempre sapere tutto quello che mi succedeva, era il suo modo di condividere la vita di coloro che amava. Julia viveva mille vite. A sua volta mi raccontava tutte le cose notevoli che le erano successe nella settimana, e le cose importanti erano di solito legate a persone, vecchi amici, ma anche nuove conoscenze, giunte a lei attraverso i suoi libri, persone che la cercavano e la venivano a trovare perché avevano letto le sue memorie, o i manuali, o il dizionario. Erano le sue gioie. Julia si appassionava alle loro storie personali, le faceva proprie, soprattutto quando rivelavano nei protagonisti  fortezza d’animo, determinazione, inventiva e… umanità. Sono le qualità che vedevo nella stessa Julia. Ha attraversato la propria vita da guerriera ed è morta con la spada in mano, senza mai stancarsi di cercare attivamente il bene.  Come una guerriera era sempre pronta a brandire il ferro in difesa di tutte le cause che riteneva giuste, non era attaccata alle cose, che lasciava o regalava con grande libertà, non era attaccata ai soldi, che usava con generosità e di cui non parlava mai.  Proprio come il mio papà, papà Pietro, lo chiamava lei, cui sarò sempre riconoscente perché da noi in famiglia non si è mai parlato di soldi, sebbene ne girassero pochi.
La vitalità di Julia non finiva di stupirmi. Non tanto quella del suo corpo, che, sebbene tenacissimo, negli ultimi tempi era diventato per lei una zavorra, quanto quella del suo spirito, così vigile, curioso, instancabile fino alla fine. Ma come fa una donna di quasi novantanove anni a conservare tanta freschezza di interessi, tanta voglia di conoscere e partecipare alla vita del mondo? Era la domanda che mi sorgeva ogni volta che le parlavo.
Nel 2015 insieme a mio marito abbiamo acquistato nelle Marche una casetta con un piccolo uliveto abbandonato. Un pezzetto di terra con delle piante di cui prendersi cura; piantarne altre, vederle crescere e respirare la loro aria: quello era stato per anni il mio sogno nel cassetto. Abbiamo passato le due ultime estati lavorando alacremente nell’uliveto. Dopo decenni di abbandono, gli ulivi erano stati sommersi da una fitta macchia che impediva, non solo di avvicinarglisi, ma perfino di contarli tutti.  L’avventura è iniziata con il taglio della macchia, fatto a mano con roncola e seghetto, per la maggior parte da mio marito. Io ero entusiasta della nostra nuova vita,  ma ancora di più lo era Julia, che seguiva tutto da vicino, voleva continui aggiornamenti sulla situazione, tutte le volte mi chiedeva quali scoperte avessi fatto.  Anche la nostra ultima conversazione telefonica dalle Marche è cominciata con un: “Raccontami degli ulivi”. Ed è proseguita con l’immancabile domanda: “Che cosa fa Nader?”.
Nader, mio marito, è iraniano. E’ venuto per la prima volta in Italia nel 2010 e, naturalmente, una delle prime persone che gli ho fatto conoscere è stata Julia. Chissà perché, quell’incontro mi preoccupava un po’: come avrebbe reagito Julia? L’Asia, il mondo islamico li sapevo fuori dal suo orizzonte; per come la conoscevo io, era europea fino al midollo. Nader, invece, era ai primi contatti diretti con la nostra cultura. Si sarebbero incontrati due universi che, tra l’altro non avrebbero avuto una lingua comune con cui intendersi, perché le lingue conosciute da Nader non erano quelle di Julia. Ebbene, con mia grande meraviglia, è stato amore a prima vista. Non so come, i due si sono subito parlati in una lingua che non ha bisogno di parole e si esprime con sguardi, sorrisi, gesti: quella del cuore. Nader , che concepisce la propria vita solo dentro il rapporto con Dio e non ne fa mistero, ha trovato una affinità totale in Julia, che si professava agnostica e di Dio non parlava, ma che ben praticava le vie dello spirito.
Uno dei più grandi rimpianti di Nader, me lo dice spesso, è di aver conosciuto Julia al novantesimo minuto.